Venticinque fa la morte a Monza:le ultime ore di Riccardo Bacchelli

Venticinque fa la morte a Monza:le ultime ore di Riccardo Bacchelli

Monza – La poltrona rossa forse non c’era, forse è leggenda: damascata, carminio, i fiori ricamati così come sul poggiapiedi che le era gemello, quella su cui la madre sveva – Anna Bumiller – aveva insegnato a Giosue Carducci il tedesco. Forse sì, c’era quel crocefisso in legno che raccontano le cronache, minuscolo, e la statuetta di Virgilio che s’era portato chissà quando da un viaggio a Mantova, a dir che gli antichi avevano ancora tanto – e quanto – da insegnare. Ma c’è da non credere che Beethoven, Rossini, Ravel e altri fossero la musica che voleva ascoltare: non sentiva quasi più, non quanto bastava per un amante della classica. E non vedeva affatto. Che tempo facesse lo chiedeva a lui, il suo medico, Antonio Zucchetti. «Che tempo fa?». C’è il sole, maestro. Fino all’ultimo, l’8 ottobre del 1985, il giorno in cui è morto: «Che tempo fa, c’è sole o è nuvoloso?». «Piove, maestro, piove». «Saran felici i contadini, finalmente». Riccardo Bacchelli è morto così, venticinque anni fa, alla clinica Zucchi di Monza. A curarlo, anzi ad assisterlo – come dice Zucchetti – il personale dell’ospedale, un’infermiera privata, la moglie quasi coetanea dello scrittore. Era l’8 ottobre del 1985. E pioveva.

Da Milano a Monza
– Le sue ultime parole, quasi certamente, sono state quelle, ricorda il medico monzese che lo ha assistito: un pensiero a quel mondo di provincia e fatto di terra e di stagioni e di sudore che aveva raccontato per tutta la vita, ripercorrendo la strada del Manzoni e di pochi altri, in Italia, nel romanzo storico. Antonio Zucchetti, allora primario di medicina e oggi cardiologo vicino alla fine della pratica, si era preso in carico quell’uomo enorme solo nell’agosto 1985. Lui che le lettere e la poesia frequentava dal liceo classico, il liceo Zucchi, si trovava ad essere il più intimo compagno degli ultimi giorni dello scrittore. Pochi mesi prima – quando non era ancora stata approvata dal parlamento la legge Bacchelli (un vitalizio per gli artisti indigenti) – il bolognese se ne stava a Milano, in un ospedale privato, che ormai soffriva quella presenza ingombrante e poco redditizia. A marzo la legge arriva, ma ormai per lui c’è poco spazio. Ci pensa la clinica Zucchi a prenderselo – lui e il suo corpo celebre e costoso di uomo 94enne, senza vista e allettato. Arriva a Monza e la direzione dice a Zucchetti: è cosa tua, occupatene tu. E il medico che guarda quell’uomo, «grande fisicamente e per quello che rappresentava», se ne prende cura. «L’ho assistito» dice oggi, venticinque anni dopo, «e gli ho voluto bene. Non era facile comunicare, cieco e quasi sordo, ma era lucido: nei pochi momenti in cui parlava era presente. Si trattava di fargli vivere quanto meglio fosse possibile quelle settimane, non di salvarlo. E lui, questo, lo sapeva». Tanto da chiedere del tempo, di come fosse andata la notte, «di tutte quelle cose che sono la vita quotidiana di ogni uomo». Se non fosse che non era ogni uomo, era Riccardo Bacchelli, con ogni probabilità l’ultimo protagonista di una stagione della letteratura italiana nata alla fine dell’Ottocento e capace di attraversare il Novecento raccogliendo tutto e il contrario di tutto: le avanguardie, le guerre, lo stile che si frantumava e la vocazione, costante, di sapere che la letteratura – l’alta letteratura – esiste nella continuità, nella traduzione della propria storia nel nuovo secolo, nei tempi nuovi. E lui, 94 anni, un corpo pesante su un letto di ospedale a chiedersi che tempo facesse dove gli occhi non potevano più dirlo, rappresentava tutto questo: un’Italia preda dei tempi e dei cambiamenti.

Fino alla fine  – Anche dei cambiamenti di stagione. Dopo un’estate calda, un inizio d’autunno secco. Poco di buono per i campi della bassa raccontati nel “Diavolo al Pontelungo” e nel “Mulino del Po”. E poco di buono per chi sapeva che dai campi dipendeva la buona tavola. «Antipasto di zampone e cotechino, tortellini al ragù, e doppia porzione di rognoni alla brace», la comanda del bolognese fino a pochi anni prima al ristorante Bagutta – dove si inventò il premio di cui divenne presidente per acclamazione – nei ricordi di Indro Montanelli, che lo descriveva entrante con l’ingombro di un «monumento a se stesso». Gli stessi cubiti di letteratura che a Monza stavano sdraiati alla stanza 246, la camera che il direttore Frova gli aveva assegnato. «Ogni giorno – ricorda Zucchetti – arrivava la moglie. Pochi, anzi quasi nessuno si ricordava ormai di lui. La moglie che aveva quasi i suoi stessi anni arrivava quotidianamente, da Milano, accompagnata in macchina. Entrava nella stanza, gli prendeva la mano. E stava così tutto il giorno. Una donna deliziosa, incredibile. La mano nella sua e qualche bacio. Era proprio in quei momenti che si riusciva a vedergli sul volto un sorriso: quando c’era lei. Non vedeva, sentiva poco, ma sapeva della sua presenza”».

Il congedo – «Maestro, come va?», ha chiesto Zucchetti avvicinandosi alle orecchie e pronunciando stentoreo – «a lui che la vita se l’era goduta, fisicamente e psichicamente, non si era negato nulla». E gli occhi semichiusi, la voce che faticava ormai a uscire, lontani i pennini da inchiostro che si procurava lanciando appelli a tutta la nazione, ha risposto: «Bene, questa notte è andata bene. Che tempo fa?». Piove, maestro. Piove.
Massimiliano Rossin