Tessile, settore in agonia:cassa e mobilità per tremila

Tessile, settore in agonia:cassa e mobilità per tremila

Monza – «È complicato dire adesso quante aziende si salveranno, ne sapremo qualcosa di più soltanto a metà del prossimo anno». Paolo Ronchi, segretario generale di Femca Cisl Monza e Brianza, non si fa illusioni: le conseguenze della crisi economica nel settore tessile sono, infatti, in linea con quanto i sindacati avevano paventato fin dalle sue prime avvisaglie nel settembre dello scorso anno. E i numeri sembrano, purtroppo, confermare le fosche previsioni di allora: 91 aziende stanno facendo uso degli ammortizzatori sociali; i lavoratori nel settore sono oltre 4 mila 335, di cui 3 mila 200 interessati dagli ammortizzatori sociali e tra questi circa 900, tra lavoratori in mobilità e fuoriusciti dal mondo del lavoro, non rientreranno più in azienda. «Noi crediamo – ha proseguito Ronchi – che a metà del 2010 ci sarà un peggioramento per le cessazioni, quando scadranno le richieste per la cassa integrazione straordinaria: solo allora avremo il dato reale sul settore». Rispetto all’anno scorso sono già una decina le aziende che hanno chiuso, mentre non sono poche nemmeno quelle che hanno abbassato il numero dei propri dipendenti e trasferito la produzione in Romania. «I problemi li abbiamo qui in Brianza, come in Toscana e nel comasco. Quello tessile italiano è un settore in cui le difficoltà ci sono sempre state, ma che ha insegnato il lavoro in tutto il mondo: perderlo sarebbe davvero un dispiacere». A causa della varietà delle specializzazioni all’interno del settore, dai cotonifici ai nastrifici, è difficile capire chi ha sofferto meno. Due comuni denominatori però ci sono: «Sono le aziende – ha concluso Ronchi – che sono state capaci di fare una forte innovazione, anche sui macchinari, visto che molti risalivano ancora agli anni ’80, e quelle che non sono andate a produrre nei paesi asiatici, limitandosi ad attaccare l’etichetta «Made in Italy». Chi l’ha fatto ha responsabilità per sé e per altri, perché la libera concorrenza non sempre è stata corretta»
Luca Scarpetta