Sant’Antonio, festa cristianache arriva da molto lontano

Sant’Antonio, festa cristianache arriva da molto lontano

Monza – La festa di Sant’Antonio abate, celebrata il 17 gennaio, è sempre stata una delle ricorrenze più sentite nelle comunità contadine. Ancora oggi è diffusa nelle zone rurali e nei paesi della provincia dove le tradizioni sono molto più radicate che nelle grandi città. Quali i motivi di tanta devozione, che rendono Antonio uno dei più amati “santi del popolo”? Non certo per la sua vita, che conosciamo grazie alla biografia scritta dal discepolo Atanasio. Nacque in Egitto, a Coma, intorno al 250; visse da eremita nel deserto lottando contro le tentazioni del demonio fino all’età di 105 anni. Sul suo sepolcro, sul monte Qolzoum, furono edificati una chiesa e un monastero; le reliquie finirono tra il IX e il X secolo in Francia dove riposano tuttora. Fin qui la storia. Ma Antonio è invocato contro le epidemie, è protettore del bestiame e patrono dei porcai, dei macellai e dei salumieri, e la sua effigie era collocata sulla porta delle stalle. Come mai?

La risposta la dà l’iconografia. Antonio abate è sempre raffigurato con accanto un porcellino, che nelle rappresentazioni più antiche è un cinghiale, tanto che i contadini, per distinguerlo da Antonio da Padova (anzi di Lisbona), lo chiamano appunto “Sant’Antoni del purscell”. Spesso ha lingue di fuoco ai piedi. Ora, per gli antichi Celti il cinghiale era animale sacro: i druidi, legati al bosco e alla quercia delle cui ghiande si nutriva, lo avevano scelto come animale totemico al punto da farsi chiamare ”grandi cinghiali bianchi”. Per loro il cinghiale era consacrato al dio Lug, che ritenevano avesse portato la luce sotto forma di fuoco.

L’immagine di sant’Antonio sarebbe dunque la rivisitazione in chiave cristiana proprio del druidico Lug, la cui festa – che coincideva con quella del fuoco nascente – cadeva proprio intorno al 17 gennaio. Con una differenza: al posto del cinghiale simbolo di sapienza c’è il maiale, alter ego del demonio. Ma c’è di più. Un altro attributo di Antonio è la croce egiziana a forma di “T” (il tau), simbolo della vita e della vittoria contro le epidemie, cui allude anche il campanello, utilizzato per segnalare l’arrivo dei malati contagiosi, che è appeso al suo bastone. E infatti è invocato contro la forma di herpes (“herpes zoster”) nota appunto come “fuoco di Sant’Antonio” o “fuoco sacro”, che invase l’Europa tra il X e il XVI secolo, per via di una leggenda: un gentiluomo francese lo avrebbe pregato per ottenere la guarigione del figlio e ottenuta la grazia fondò un ospedale destinato a curare i malati del morbo, in seguito gestito dall’ordine monastico degli Antoniani.

Infine, i riti legati alla sua festa. Da sempre, tra frittelle e vin brûlé, anche in Brianza si accendono in suo onore falò purificatori e beneauguranti: gli stessi che i nostri avi bruciavano a Imbolc, inizio febbraio, per salutare la fine dell’inverno. La figura e il culto di Antonio, dunque, nascondono una tradizione che affonda le sue radici in culti ancestrali e rappresentano un tentativo, riuscito, di sincretismo tra le credenze antiche e la religione cristiana.
Elena Percivaldi