Il commento di Paolo Pirola:Pierello, ovvero la banalità del bene

Ambrogio, Alma, Stefano, Michele, Mamm Lusìa, Manno… quanti personaggi abbiamo visto sfilare lungo le 1280 pagine del romanzo. Tra tutti, quello che ho amato di più in questa stupenda saga briantea è Pierello: il mio personalissimo Frodo Baggins. Compare nelle prime pagine del libro, al capitolo settimo, il giugno del 1940. Ambrogio, il figlio dell’industriale Riva, accompagna in automobile al distretto di Monza alcuni giovani coscritti del ’21 di Nomana / Besana, appena chiamati alle armi dopo l’entrata in guerra dell’Italia: sono Igino, Castagna e Pierello.

Era un ragazzo d’aspetto solido e insieme mite, con la testa rotonda e capelli e occhi marrone chiaro; salutò Ambrogio con un sorriso accattivante: “Se mi vuoi sono qui anch’io (se te me voret sun chi an’mi)” dichiarò, quasi non fosse stato invitato, e in risposta alla cordiale pacca di lui allargò le braccia e alzò gli occhi al cielo, precisamente come Ambrogio s’aspettava. Aveva infatti questa singolare abitudine Pierello: di allargare per motivi minimi, e talora anche senza motivo, le braccia, e alzare gli occhi al cielo, nel gesto di chi si arrende al destino.

Ecco, in queste poche magistrali righe, già definito il carattere e la natura di Pierello: colui che accetta quello che il destino (Dio?) propone. E’ l’uomo semplice, che attraversa la storia e ne è attraversato. Sempre conservando una umanità ed una dignità che è la vera essenza del popolo. Rientrato in Croazia dopo la licenza, durante la quale aveva accompagnato in visita da Ambrogio quella povera mamm Savina, era stato all’armistizio deportato dai tedeschi, e adesso si trovava in una delle zone di maggior tragedia, nel settore nord-orientale della Germania, vicino al vecchio confine con la Polonia. (pg.807) Pierello, in compagnia di un prigioniero polacco, Tadeusz, attraverserà la Germania, tra i ghiacci e le fiamme, nel mezzo dell’esodo del popolo prussiano, in fuga dall’armata sovietica. Il ritorno a casa, alla cascina Lodosa (nella realtà Odosa), nei pressi di Nomana/Besana, è uno dei momenti più lirici de Il cavallo rosso.

Il ponte che scavalcava la ferrovia sembrò a Piero inverosimilmente piccolo; dopo di che, superato il modesto campo sportivo del paese e certi boschi di robinie, gli venne incontro la campagna che scendeva alla sua Lodosa. Era coltivata parte a grano, già con la spiga, d’un bel verde che rubava gli occhi, parte a prato, qua e là percorsa da filari di gelsi; in basso lungo la bevera i salici e i pioppi s’erano molto infoltiti, al punto d’impedirgli di vedere l’esigua corrente pulita nella quale tante volte, da bambino lui aveva pescato col fazzoletto i ghiozzi, quei pesciolini che sembrano insetti. Li pescava insieme con Castagna e gli altri bambini della sua età; per valorizzare la loro pesca infantile Castagna usava affermare: “A me basta mangiare otto o dieci di questi ghiozzi per sentirmi satollo (sagòll).” Chissà se adesso Castagna era a casa?. (pg. 906)

Dopo il ritorno nella sua Contea – come non vedere qui una incredibile affinità con Il signore degli anelli – Pierello riprende subito a lavorare dove lavorava prima della guerra: nelle ferriere a Sesto. Si innamora e prende in sposa Luisina che gli darà due figlie e un figlio.

La Luisina aveva un “personale” davvero gradevole, che quel giorno il vestito buono metteva in risalto; ripensandoci sembrava a Piero quasi sorprendente che una ragazza così fosse in realtà semplice e pudica com’era: tutta – egli lo sapeva – casa e chiesa, e oratorio delle monache a Nomana, e lavoro laggiù nella filatura di Briosco, dove le donne quando si mettevano a cantare, cantavano le litanie. (pg. 966)

Non sa spiegare quello che è successo – la barbarie alimentata dalle ideologie del Novecento – e nemmeno quello che sta succedendo – l’Italia che cambia, il sessantotto che travolgerà suo figlio Taddeo (ricordate l’amico polacco) -, ma sa sempre cosa fare: banalmente fa la cosa giusta. Ecco, come dicono quelli più intelligenti e preparati di me, la cifra di Pierello è forse questa: la banalità del bene.
Paolo Pirola
presidente della associazione culturale Brianze