Il ”cavallo rosso”:realtà contro ideologia

Monza – Prosegue la nostra campagna di promozione della candidatura di Eugenio Corti al premio Nobel per la letteratura. In questa pagina, al fine di fare conoscere i suoi scritti, presentiamo un brano tratto da Il cavallo rosso (capitolo 28, pagine 975-978 della quarta edizione, 1986). Siamo nella stanza dell’ospedale di Nomana, dove Tito, reduce da tre anni di prigionia in Russia, viene assistito. E’ molto deperito ed è malato di tisi. Viene a fargli visita un suo parente, che durante la guerra ha fatto il partigiano. Quest’ultimo, di dichiarata fede comunista, ha in mente la Russia come paradiso della classe operaia. Le sue idee si scontrano con la testimonianza del reduce.

Un giorno, mentre Tito era solo, entrò nella sua stanza l’ex partigiano Sèp, ch’era suo lontano parente per parte di madre. «Come va cugino?» lo salutò in dialetto: «Son proprio contento che sei tornato.» «L’importante è essere vivi» gli rispose Tito, sorridendo. «Ecco bravo.» Sèp gli strinse, non senza emozione, la mani con la propria sinistra in quanto aveva la destra fasciata e sospesa al collo mediante una sciarpa. Poi, sempre con la sinistra, battè amichevolmente su una spalla del malato: non s’aspettava di sentire sotto le dita le ossa e ossicine sporgenti dell’altro. «A questa mano m’hanno operato ieri» dichiarò un po’impacciato mostrando la destra rivestita di garze. «Lo sai no? Il dottor Cazzaniga, a lasciarlo fare, opererebbe anche la Madonna di gesso delle monache.» Tito sorrise. «L’avevo sentito infatti che ti hanno operato.» L’altro intuì che allora doveva essere al corrente anche dei suoi trascorsi partigiani e del suo attuale attivismo nel partito comunista. «Boh» fece, e alzò marcatamente le spalle, a significare che comunque a lui non importava niente sia dell’operazione chirurgica, che delle riserve della gente, che delle eventuali riserve dello stesso Tito. A quest’ultimo riguardo tuttavia non era sincero, tanto che poi nel parlare gesticolava più del necessario, a momenti anche con l’ingombrante destra fasciata; cominciò con farsi beffe del cartello ‘Isolamento – è severamente vietato entrare’ appeso fuori della porta; al che Tito gli sorrise, con popolana complicità. Notava intanto che il viso di Sèp –sebbene questi avesse soltanto vent’anni – si stava già raggrinzendo intorno al naso e alla fronte; ma i visi raggrinziti –ricordò il malato – erano un distintivo della famiglia di Sèp. «Non ti siedi un momento?» gli rispose. L’ex partigiano prese allora posto sull’unica sedia del locale, sulla quale sedevano di solito don Mario e Giacomo il crocifero; accavallò le gambe piuttosto lunghe, distintivo di famiglia anche questo. Il malato gli chiese notizie dei comuni parenti, e Sèp nel dargliele si diffuse con qualche prolissità; parlò quindi delle difficoltà del momento, tenendosi però sempre sulle generali, tanto che Tito pensò non ci sarebbero state discussioni, e ne fu lieto, perché l’idea di discutere non l’attirava in alcun modo. Costituì tuttavia pietra d’inciampo una delle abituali frasi di Sèp, buttata là senza riflettere: «Peccato che Stalin non sia arrivato fin qui, perché le cose le avrebbe sistemate lui.» Tito impallidì un poco. «No» ribattè con calma: «Quello avrebbe soltanto chiuso in prigione e fatto morire un mare di operai e contadini, senza sistemare niente.» A quest’uscita Sèp azzittì; nel suo atteggiamento affiorava l’insofferenza propria del dogmatico che viene contraddetto, insieme però gli si disegnava in viso anche un principio di preoccupazione, la preoccupazione che l’altro confermasse certe notizie circolanti nell’ospedale. Quelle sconvolgenti notizie erano state in realtà il principale movente della sua vista. «O Tito, non ti sarai messo anche tu coi fascisti, per caso?» esclamò. «E perché?» rispose Tito; «E da quando in qua? Dopo che hanno perduta la guerra mi sarei messo con loro?» «Beh, guarda, non discutiamo» fece Sèp; ma era un proposito velleitario; l’ultima cosa che avrebbe voluto era di rinunciare davvero a proseguire quel discorso. «Ecco, va bene, non discutiamo» aderì incondizionatamente Tito: «oltre tutto io non me la sento proprio». Sèp stava sulle spine. «Tu lo sai che io sono stato partigiano?» buttò fuori: «Partigiano comunista? E che adesso, qui in paese, sono in politica?» «Sì, lo so. E allora? Vuoi che per questo non ti dica la verità? Però ascolta: hai appena detto che non dobbiamo discutere, quindi basta.» «Tu Tito non puoi metterti dalla parte dei signori. In fin dei conti sei anche tu un povero diavolo come me» insistè quasi aggressivo l’altro. «Anche più povero, se è per questo, specialmente di salute.» «Ecco. Dunque fai male a metterti contro il popolo, lasciamelo dire. Devi piantarla di raccontare in giro quelle cose che t’hanno messo in bocca…chi? Saranno stati gli ufficiali, i signori insomma, che sono poi i responsabili d’ogni miseria dappertutto. Non ti rendi conto?« «Le cose che m’hanno messo in bocca?» Tito sbuffò. «Senti, tu parli di povera gente, parli di miseria» disse lento, volgendo verso l’altro il viso gonfio sul collo scarnito: «Lo sai che in Russia c’è molta, ma molta più miseria che qui da noi?» «E’ impossibile». «Molta di più. Senza confronto. E quanto ai responsabili…là i responsabili sono i tuoi comunisti, perché sono loro i padroni di tutto. E tratano la povera gente in una maniera che i padroni di qui non l’hanno fatto mai. Ecco come stanno le cose». A sentire parlare a quel modo dei comunisti uno ch’era stato in Russia, negli occhi di Sèp passò un’ombra di paura. «Tu non puoi aver visto molto» esclamò «sei sempre stato al chiuso, non hai visto quasi niente.». «Senti ragazzo, io sono stato là più di tre anni» disse Tito. Sembrava voler aggiungere altro, ma alzò le spalle e si riaccomodò nel letto. «Va bene. Vuol dire che quando voglio sapere come stanno le cose in Russia, me lo faccio spiegare da te. E adesso cambiamo discorso.» Ci fu una lunga pausa; Sèp, era chiaro, non voleva che l’incontro si concludesse a questo modo. «Però hanno ragione» non seppe trattenersi dall’osservare Tito «quelli che dicono che voi comunisti avete portato tutti la testa all’ammasso. E’ proprio così. Pare impossibile, la testa all’ammasso. Anche tu.» Sèp a questa uscita aprì e chiuse un paio di volte la bocca per replicare, ma non lo fece. Tito s’aspettava d’essere insultato: era chiaro che la sua accusa, d’aver portata la testa all’ammasso, doveva riuscire particolarmente insopportabile all’altro, che in fin dei conti si era ribellato alla dittatura al punto da combatterla con le armi. Il reduce provò un senso di malinconia; Sèp riuscì ad ogni modo a dominarsi, non cedette all’irritazione. Si limitò a dire: «Tito, tu sbagli e fai male a… a metterti contro la speranza della povera gente. Ecco.» «Piantala Sèp, piantala. Quale speranza? Quella del comunismo è solo un inganno, non una speranza.» Sèp finì con l’alzarsi in piedi; considerò ancora una volta il malato, rivelatosi così irriducibile. «Cugino, oggi non avevo in mente di discutere con te» dichiarò, «non volevo stancarti o metterti in agitazione (Tratt all’ari). E invece ti ho messo in agitazione, mi dispiace. Adesso è meglio che me ne vada; però io qui ci torno ancora. Perché la testa all’ammasso non l’ho portata.» «Lascia perdere» disse Tito con stanchezza: «Non volevo mica offenderti». «No» continuò l’altro «devi dirmi tutto quello che hai visto». «Soltanto brutte cose» mormorò Tito. «Va bene, mi dirai quelle. Ritorno domani. E tieni bene a mente che io la testa all’ammasso non l’ho portata.» Sèp intendeva effettivamente tornare l’indomani. Ma quel giorno stesso il dottor Cazzaniga lo tolse di torno, dimettendolo dall’ospedale.