Corti: La replica di Scaglione

Corti: La replica di Scaglione

La replica di Scaglione
«Perché io dico e ripeto che l’arte indirizza a Dio? Te lo ricordi o non lo ricordi più, e ti pare che lo dica soltanto perché ci troviamo all’oratorio?». Eugenio Corti, in uno degli episodi iniziali del romanzo Il cavallo rosso, affida al giovane Manno, studente di architettura, il compito di spiegare ai ragazzi di una parrocchia della Brianza quale sia l’essenza dell’arte. L’interpellato, diciassettenne apprendista giardiniere, fatica a ricordare il concetto, così sulle labbra di Manno torna a vivere la formula antica della bellezza: «L’arte è l’universale nel particolare». Il giovane, qui portavoce di un autore per il quale vita e vocazione alla scrittura sono inscindibili, non si accontenta di insegnare una definizione astratta ai suoi compaesani e aggiunge: «Ma cosa significa, a metterla in spiccioli, questa frase?». È in gioco – il lettore lo comprende bene – il senso del lavoro operaio o artigianale che quei ragazzi svolgeranno da adulti. Di più: è in gioco il senso dell’agire di ogni uomo. Sarà l’intero romanzo a rivelare, in un grandioso affresco narrativo, come si manifesti l’universale nel particolare. Perché se l’universalità della letteratura sta nel rivelare l’essenza dell’uomo e del mondo attraverso la rappresentazione di personaggi e avvenimenti, quello descritto da Corti a partire dalla sua Brianza è un mondo in cui l’universale si fa evidenza tangibile di rara suggestione. E conduce naturalmente a Dio. Non perché si tratti di un discorso da oratorio o perché si debbano rispettare astratti canoni di romanzo cristiano, ma perché – come ricorda l’origine greca del termine – ”cattolico” vale appunto ”universale”. Proprio la radicata formazione cattolica di questo autore, unita al realismo tutto brianteo che anima il suo modo di essere e di scrivere, lo porta a intuire il nesso tra la quotidianità e il senso della storia e dell’intero universo. Se dunque la realtà che Corti indaga con appassionata ragione lascia trasparire barlumi che la trascendono, se vivendo con mente e cuore liberi ci si accorge che il mondo non si esaurisce nell’immediata apparenza, uno scrittore onesto deve raccontare per intero ciò che ha visto e vissuto. Nasce da questa esperienza la tensione a ricostruire minuziosamente sia le microstorie dei personaggi del romanzo sia il senso dei grandi avvenimenti storici e delle correnti di pensiero che condizionano la vita dei singoli. Il cavallo rosso ha richiesto al suo autore dodici anni di lavoro e di studio, di verifica delle fonti più disparate e di incontri con i testimoni diretti degli episodi a cui non ha partecipato di persona. Non è solo per quel gusto della precisione e del lavoro ben fatto che caratterizzava (e spesso ancora caratterizza) l’operosità briantea: lo scopo è raccontare i fatti con la maggiore precisione possibile, perché tutto dia testimonianza alla verità. Sono numerosissime, a questo proposito, le conferme ricevute dallo scrittore sulla veridicità dei suoi racconti; una tra le tante riguarda la descrizione del lager sovietico di Crinovàia, in cui il cannibalismo tra i deportati era pratica quotidiana. L’autore, che pure non è mai stato in quel luogo, ha raccolto notizie da testimoni diversi, giungendo a descrivere quella vicenda con una precisione tale da far pensare che sia una narrazione autobiografica. Qualche anno dopo la pubblicazione del suo capolavoro, un incontro gli dà la riprova della fedeltà della sua ricostruzione. Racconta Corti: «Che la realtà di Crinovàia sia resa nel romanzo con esattezza me l’ha testimoniato un medico, un certo dottor De Ponti, reduce da quel lager, che ho conosciuto nel 1987, in occasione di una mia conferenza nel paese di Inzago. Quando sono entrato nella sala della conferenza, quell’uomo mi è corso incontro e mi ha abbracciato: ha detto che era contento di rivedermi, ma che non si ricordava di me a Crinovàia e che non ricordava neanche il mio cognome. Gli ho risposto che infatti io non ero stato in quel campo. Rimasto stupefatto, mi ha detto che gli pareva impossibile, tanto la descrizione del lager nel romanzo era aderente alla realtà». L’archivio delle lettere ricevute dallo scrittore custodisce un’infinità di attestazioni simili, che mostrano come la fedeltà alla verità sia il mezzo più immediato per comunicare l’essenziale. Questo amore intenso al particolare è la cifra distintiva di un autore che non fa mistero di voler cantare il modo in cui l’assoluto entra nelle pieghe del vivere umano. Corti – e il suo romanzo lo manifesta con assoluta evidenza – non è un etereo ideologo, ma un cristiano integrale pragmatico e realista che, per onestà intellettuale, nel descrivere la realtà non può staccarsi da una prospettiva trascendente. Ha affermato al proposito: «Secondo la cultura dominante lo scrittore dovrebbe scrivere indipendentemente dalla presenza di Dio nella storia. Ma se Dio è entrato nella storia, ciò ha comportato nella storia stessa e nella vita degli uomini importanti conseguenze. Chi le escluda mentre ricompone la realtà nelle sue pagine si esclude per ciò stesso da una parte enorme della realtà. Per un autore come me questo comporta l’emarginazione da parte di tutto il mondo laicista (prevalente nella cultura), ma anche da parte di tanti cristiani che con quel mondo vorrebbero tenersi in stretto contatto». Non intona il lamento per la distrazione di qualche critico, Corti: l’esperienza gli ha insegnato che il giudizio sulle proprie scelte viene dalla verità, non dal successo del mondo. È salda in lui la convinzione che del proprio agire si debba dar conto nel tempo e nell’eternità, insieme a quel senso di responsabilità che porta a operare per il bene comune e per la salvezza dell’anima. In questa prospettiva si comprende l’origine del senso del dovere che anima molti personaggi del Cavallo rosso. Anche qui il romanzo regala un’infinità di esempi: dal bersagliere contadino Stefano, che muore combattendo fino alla fine sul fronte russo perché, «per quanto modesto, non era mai stato di quelli che scappano» e anche in una battaglia disperata «avrebbe dunque fatta la sua parte, come sempre nel corso della vita», alle suore ortodosse russe condannate per la loro fede ai lavori forzati e che, pure, si prodigano nell’aiuto alle compagne comuniste. E ancora c’è l’industriale Gerardo, che si dà «senza tregua da fare per creare nuovi posti di lavoro», poiché la sua responsabilità verso la comunità in cui vive gli fa avvertire questo come compito essenziale dell’imprenditore; così, con tipica concretezza catto-briantea, si pone una domanda pressante: «E come rispondo io, per quanto mi riguarda?». Il personaggio raffigura con totale fedeltà il padre dello scrittore, emblema dell’industriale di origine popolare tanto diffuso nella nostra terra. E insieme riprende i tratti dell’agire di Eugenio Corti: fare la propria parte nella condizione in cui ci si trova, che sia la direzione di un’industria tessile o la vocazione a scrivere. Proprio la radicata territorialità – non particolarismo ma identità forte – è il segreto dell’universalità di questo romanzo: qui la Brianza non è descrizione idilliaca di un mondo passato (anzi: fin dalle prime pagine è evidente anche in questa terra la presenza del male), ma è modello di umanità e di società in cui si vorrebbe vivere. Per questo un lettore dell’edizione romena può scrivere: «Che bello che Nomana [Besana, nel romanzo] esista!». E una giovane monzese, appena giunta al termine delle 1274 pagine del Cavallo rosso: «Vorrei essere di carta per entrare nel libro». È la capacità di non fermarsi al particolare ma di svelarlo nella sua relazione con l’assoluto ad attrarre alla scrittura dell’autore besanese lettori da ogni parte del mondo, a far riconoscere a chi legga con mente libera che nei personaggi rappresentati c’è l’uomo di ogni tempo e di ogni luogo. Ha scritto a Corti dall’Uruguay una lettrice dell’edizione spagnola: «Aunque nos separe un océano, cómo nos une la verdad!. Anche se ci separa un oceano, come ci unisce la verità!». Lo scrittore, come ogni uomo non può esimersi dal giudizio storico, politico, etico sul tempo e sul luogo in cui vive, perché proprio da quelle circostanze concrete passa l’universale. E non può dimenticare che, se l’universale non attraversa il particolare, le parole restano di carta, mentre la vita scorre in superficie.
Paola Scaglione