La Brianza e la malagiustizia: i casi di chi è finito in cella per errore (e con poche scuse)

Un portale internet raccoglie le cronache delle “sviste” giudiziare come raccontate sui giornali: dai casi di omonimia (la maggior parte), agli equivoci, ai nomi stranieri storpiati. Cinque storie: a Monza si parte da un caso del 1980.
Il tribunale di Monza
Il tribunale di Monza

C’è quello scambiato per uno psicolabile, contrabbandiere di carne e burro. Un altro, un onesto tappezziere, per un pericoloso rapinatore. Sono due brianzoli vittime di scambi di persona. Le loro storie sono finite sul sito “errorigiudiziari.com”. Vicende che a una veloce lettura possono apparire anche divertenti. Ma che, per i diretti interessati, hanno rappresentato un incubo.

Come per quel Vittorio, classe 1936, nato a Imola, il 5 maggio. Stesso nome, cognome, data e luogo di nascita di un altro, finito a processo a Bologna per resistenza a pubblico ufficiale. Una storia risalente al 1980 quando uno dei due, già noto all’epoca per oltraggio a pubblico ufficiale e contrabbando di carne e burro, con qualche problema mentale, fu sottoposto su ordine del tribunale a un trattamento sanitario obbligatorio.

Un ricovero coatto. Ma lui resiste. Non vuole. Arrivano anche i vigili. Li assale, prendendosela anche con la loro auto di servizio. Alla fine il ricovero avviene. E al contempo la sua “reazione” approda nelle mani della magistratura. Una volta uscito dall’ospedale se ne perdono le tracce e un mandato di cattura nei suoi confronti non viene eseguito. Fino al 1988, quando un tal Vittorio, nato il 5 maggio 1936 a Imola viene scovato a Monza. E finisce sotto processo.

Lui si difende: «Vi sbagliate, non sono io il Vittorio che cercate». Ma la procura di Bologna decide per il rinvio a giudizio. Trascorrono due anni e, il 19 aprile del 1990, a dieci anni dall’episodio, il Vittorio monzese si trova faccia a faccia con i vigili che avrebbe aggredito. I quali scuotono il capo: «No, non è lui». Assoluzione e tante scuse.

Una vicenza più o meno simile è quella che riguarda Mario, di Briosco. Nel 1993 fu accusato da alcuni collaboratori di giustizia di fare parte di una maxi banda di rapinatori responsabili di 61 rapine in 5 anni, tra il 1986 e il 1991, in tutto il Nord Italia.

Finisce in carcere ma tutti quelli che lo conoscono non credono nella sua colpevolezza, sono sbalorditi. Mario fa il tappezziere e la sua vita non ha ombre. Infatti il giorno dopo sarà scarcerato: scambio di persona. O meglio, di citofono. In realtà i pentiti volevano indicare un tal Mario Romano, sposato con una donna che di cognome fa come il brioschese, l’unico indicato sulla targhetta del campanello. Di qui a mettere nei guai Mario il gioco è fatto. Il brioschese esce definitivamente (e ovviamente pulito) dalla vicenda.

È molto piccante invece la storia che ha riguardato suo malgrado un brigadiere dei carabinieri finito nel 2009 agli arresti domiciliari per 5 mesi con l’accusa di favoreggiamento e sfruttamento della prostituzione. Tutta colpa di un fastidioso mal di schiena. Una patologia cronica dalla quale traeva giovamento solo con i massaggi. Si era perciò rivolto a un centro di Seregno dove, oltre ai tradizionali trattamenti cinesi, offrivano però anche dell’altro, i massaggi thailandesi, tutta un’altra cosa.

La titolare, una donna cinese, al brigadiere ovviamente non faceva neppure menzione della seconda opzione. Tutto in regola. Finché un giorno il militare telefona per prenotare il suo massaggio e la titolare gli annuncia che non ci sarà, ma gli propone di sottoporsi al solito trattamento con un’altra ragazza: «È brava come me – dice – Se accetta le faccio un regalo, il massaggio sarà gratis».

Il centro, come altri, è interessato da un’indagine – tra l’altro dell’Arma – e la telefonata viene intercettata. Nel centro è stata addirittura installata una telecamera. Riprende anche il massaggio al carabiniere, regolare. Ma ciò nonostante finisce nei guai, accusato addirittura di ricevere denaro dalla titolare per evitarle controlli. Finisce a processo ma fortunatamente il giudice capisce l’equivoco: il brigadiere viene assolto e reintegrato.

Uno magro, l’altro grasso e non a caso chiamato «el Gordo».Uno è spagnolo, l’altro colombiano. Uno ha un figlio, l’altro una figlia. Eppure, a finire in carcere, nel 2009, per errore, è il primo, un osteopata spagnolo 42enne incarcerato con l’accusa di aver trafficato droga.

Deve scontare 15 anni. È stato processato per tre volte ma lui neppure lo sa. Dopo otto mesi di cella, a Opera, emerge la verità. E otterrà un risarcimento di 85mila euro. Tutto parte da un controllo effettuato dai carabinieri di Monza ad un casello autostradale, l’8 agosto del 2000. Identificano un italiano e un altro soggetto con il passaporto dello spagnolo, transitato in un motel di Varedo.
Peccato che quel passaporto sia stato rubato all’ignaro spagnolo, estradato e arrestato. A Opera lo spagnolo incontra casualmente l’italiano fermato al casello dai carabinieri, diventato collaboratore di giustizia. Dice che «el Gordo» non è lui.

Il passaporto? Gliel’aveva rubato e consegnato al vero trafficante per rifarsi un’identità. È un carabiniere in servizio a Monza a recuperare il documento e a dimostrare la verità. A gennaio del 2011 l’assoluzione viene sancita anche in Cassazione.

Un altro assurdo caso di omonimia è quello che riguarda un albanese 36enne residente a Modena, di professione cuoco, confuso con un altro – accusato di sfruttamento della prostituzione – del quale aveva tutto identico a parte la lettera finale del nome, una “n” invece di una “m”. Il cuoco, su ordine del Tribunale di Monza, finisce in carcere. Lo salvano le impronte digitali. Detenuto ingiustamente per 11 mesi, nel 2012, perché accusato da una “lucciola” che avrebbe sfruttato nell’ambito di un’inchiesta della procura di Monza, un altro albanese 35enne ha ottenuto un risarcimento di 51mila euro. Il suo legale ha parlato di accuse generiche: la prostituta non ha tra l’altro mai descritto: «la sua forte stempiatura e un difetto all’occhio sinistro, meno mobile dell’altro».