Enrica Cantù, 19 anni di coma:una vita che ha generato vita

Enrica Cantù, 19 anni di coma:una vita che ha generato vita

Concorezzo – Avevamo chiesto un’intervista al marito e al figlio di Enrica, ma, cronista e fotografo, ci siamo trovati davanti una ”famiglia allargata”, come l’hanno definita loro. Nell’appartamento di via IV Novembre, attorno al tavolo, ci sono Giovanni Teruzzi, il marito, 54 anni, ingegnere elettronico, il figlio Giacomo, 22 anni, un diploma di liceo scientifico e un inizio di lavoro dopo aver abbandonato agraria; ci sono papà Angelo Cantù, classe 1930, alle spalle lavori di panettiere, agricoltore e operaio, e mamma Anna, classe ’36, casalinga di ferro, una di quelle donne che considera i lavori di casa più seri di una professione; c’è Mauro, 44 anni, il fratello, e poi ci sono le amiche di Enrica: Patrizia, agronoma, Daniela, imprenditrice, che cantava con lei nel coro, Silvia, impiegata, Serena, insegnante, che è diventata amica quando ha iniziato ad assisterla; e c’è anche Silvia Piamarta, medico geriatra che dal 2001 ha assistito la donna in coma alla casa di cura Bellani di Monza fino alla fine, avvenuta sabato 24 aprile.

Il dramma. Le parole escono con calma, cariche di sofferenza, di tenerezza e anche di serenità per ricordare l’esperienza vissuta in 19 anni di compagnia a Chicca, come amichevolmente chiamano la defunta. E’ il marito Giovanni a descrivere quella tremenda mattina del 16 aprile 1991, quando Enrica, 32 anni, stette male. «Ero a Roma, mi dissero che stava male, rientrai subito. E’ stata mamma Anna a trovarla rovesciata all’indietro sul letto». Si stava preparando per andare alla scuola media di Brugherio dove insegnava lingua inglese: un aneurisma le aveva fatto perdere conoscenza. Subito venne portata a Lecco, i medici decisero di intervenire chirurgicamente per fermare l’emorragia, perchè stava provocando danni enormi. L’intervento durò più di quattro ore: «mi dissero che era riuscita, ma il medico che l’aveva operata aggiunse anche quale aspettativa di vita avesse. Mi ricordo le esatte parole: ”Tre minuti, tre giorni, 30 anni…”». Quindi il ricovero a Passirana di Rho, e dal 1999 alla Bellani di Monza. Da subito è cominciata l’assidua assistenza dei famigliari ad Enrica, a cui si sono aggiunte via via altre persone, parenti, amici, donne della parrocchia, in un crescendo che ha portato il numero a quaranta. «Gli psicologi, intervenuti formalmente per aiutare mio figlio, Giacomo, che allora aveva tre anni, in realtà sostennero me. Mi dissero di buttarmi nel lavoro da lunedì a venerdì e di fare compagnia a Giacomo nel fine settimana».

I turni. Poste le basi, tutti gli altri ruotarono attorno a questo criterio. Papà Angelo e mamma Anna si mobilitarono senza sconti nè soste: il primo andava ogni giorno a trovare Enrica, la seconda fece da mamma a Giacomo, senza trascurare di visitare la figlia. Tutti gli altri aiutarono a coprire i turni, le amiche, in particolare il fine settimana. «Decisi subito – dice Giovanni – di non mollare Enrica mai. C’era la speranza e c’è stata fino alla fine la speranza che si sarebbe svegliata. E per favore non scriva che il cervello si era fermato, non è vero. Non è mai stata attaccata alle macchine…» A Giovanni, che allora aveva solo tre anni, gli consigliarono di dire la verità: che la mamma stava male ed era in ospedale. La prima domanda: come si fa a resistere in una situazione del genere? Risponde Giovanni: «Si può fare perchè ho suoceri così, amiche così. Poi devo dire di aver trovato personale medico e non medico di grande umanità. La Bellani è diventata addirittura una famiglia, una seconda casa». E la dottoressa Silvia specifica: «Ho trovato una famiglia presente, e quindi è venuto spontaneo volere bene a Chicca». E le situazioni critiche non sono mancate: nel Natale del 2008 Enrica non riusciva a nutrirsi, oppure quella volta in cui si ruppe l’omero. «Decidemmo ogni intervento insieme, – racconta la dottoressa – pensando al meglio per Enrica».

Niente raffronti. Impossibile evitare la seconda domanda: che cosa pensate di Peppino Englaro, il papà di Eluana? «Il caso scoppiò proprio quando Enrica non riusciva a nutrirsi -ricorda Giovanni – e aggiunge: «Non mi sento di fare raffronti, io ho avuto la grazia di essere aiutato da questa gente». Interviene Anna, la mamma: «Il papà di Eluana non l’ho mai giudicato, lo comprendevo..» «Io invece no – interviene Giacomo -. Quando 4 anni fa, nella ricorrenza dei 15 anni dall’episodio che colpì mamma, facemmo la messa alla Bellani, Enrica fece delle smorfie quando il coro cantò una canzone a lei carissima. Ecco, non si può parlare di non vita…». «Per me è stata una vita importante -afferma Silvia, la dottoressa -; come ha detto il sacerdote nell’omelia funebre, lei ha creato una luce che ha illuminato la vita di altre persone, quelle che le ruotavano attorno». «Io invece – interviene Anna -affrontavo ogni situazione che emergeva come un robot». Replicano le amiche, benevolmente: «Ma come fai a dire così, proprio tu, che ti facevi in quattro in ogni minima cosa per tua figlia e ci rimproveravi se non stavamo attente al particolare? Un amore così non può esprimerlo un robot!». Parla Mauro, il fratello di Enrica: «Io scappavo, cercavo di non dare fastidio, di non fare pesare i miei problemi in casa». «Poveretto -dice Anna – lui è quello che ha sofferto di più. Gli facevamo trovare il mangiare pronto; aveva 25 anni, si era messo in proprio nel lavoro ma ha dovuto piantare lì perchè noi andavamo da Enrica…».

Dio c’è. Terza domanda: normalmente, quando capita una disgrazia del genere, chi ne è colpito reagisce male nei confronti di Dio e pensa: o non c’è, o, se c’è, è cattivo. Voi cosa pensate? Risponde Giacomo: «quando ho iniziato l’adolescenza ho cominciato a parlare con papà. A 17 anni ho smesso di andare in chiesa. Ma poi papà mi portava; ebbene, quel che ho visto, l’affetto per Enrica è la dimostrazione che Dio c’è. Non dico che ho accettato il fatto successo a mamma, ma nemmeno il contrario. Una cosa è certa. Al termine del funerale unn parente mi ha avvicinato e mi ha detto: ‘per te inizieranno ora giorni sereni’. Gli ho risposto: ”Io sono già sereno”.

Il presente. Quarta domanda: parlate di cosa avete nel cuore ora che Enrica è morta. Risponde Giovanni: «La prima sorpresa è stato il cordoglio del personale e degli ospiti della Bellani, un bigliettino con scritto ‘Non abbandonateci’».E tutti ricordano le parole dell’omelia del celebrante: «è una festa della vita, la vita di Enrica». :«Concordiamo con quanto detto da don Gianni – dice Giovanni -, cui ho telefonato per ringraziarlo». Interviene Serena, una delle amiche: «C’è la consapevolezza di essere di fronte a una Presenza. Non è mai stato formale parlare con Enrica: c’era è c’è la certezza che la sua vita ha un senso, che c’è una presenza misteriosa. Il bene che è esploso cosa è se non un pezzettino di vita nuova? Quando ho raccontato la vicenda alle colleghe si sono commosse, colpite da un’esprerienza di bene, sorprese più di quanto lo sei tu: se non è Gesù questo, che cosa è?».

La serata si chiude come un felice incontro: un po’ di pasticcini e un bicchiere di spumante, in serenità. La vita continua viene da dire; in realtà non si è mai fermata. Ed è migliorata.
Antonello Sanvito