Iran, rivoluzione disumanaParla Marina Nemat

Iran, rivoluzione disumanaParla Marina Nemat

Monza – Un tempo non certo primaverile quello di mercoledì, ma che non ha impedito una notevole partecipazione all’incontro “Prigioniera a Teheran – Una storia di sopravvivenza e di speranza“ con la testimonianza di Marina Nemat, promosso dal centro culturale Talamoni col patrocinio dell’assessorato all’Educazione del Comune di Monza. A Camille Eid, libanese, giornalista, scrittrice e docente universitario di arabo nonchè responsabile di Araba Fenice-Centro studi sulle Culture del mondo arabo, era affidato il compito di dare una contestualizzazione al successivo racconto. Il regime in Iran ha ormai trent’anni di vita e tutto iniziò nel 1979 con la rivoluzione komeinista. Prima con lo scià Reza Palhevi vigeva una democrazia formale, anche se cercava la modernizzazione del Paese. Quando il malessere si trasformò in rivolta nacque un regime diverso «che con una vera contraddizione di termini viene tuttora definita repubblica islamica» ha detto Eid.

Al vertice dello stato si trovano l’ayatollah e gli iman sciiti, una teocrazia alla fine rivestita di repubblica. Ma fu la guerra con l’Iraq, che provocò oltre un milione di morti, che portò il regime a divenire più radicale ed a mettere a tacere tutte le contestazioni. Quindi il racconto di Marina Nemat:«Sono nata nel 1985 a Teheran sotto il dominio dello scià, in un paese normale. Sono cristiano-ortodossa perchè le nonne di origine russa sono emigrate dopo la rivoluzione del 1917. Sono cresciuta come ogni altra ragazzina di quei tempi: minigonne, magliette strette, musica di gruppi occidentali, bikini. Per me l’Iran era un Paese tollerante verso chi praticava altre religioni» anche se oltre l’80% della popolazione era islamica. E’ cresciuta tra il via vai dei clienti della scuola di ballo di papà e del salone di acconciature di mamma, ma anche al cottage della famiglia sul mar Caspio. Una classica teen-ager che frequentava la scuola, e tredicenne già innamorata di un diciottenne.

Poi irruppe la rivoluzione. Scuole chiuse, e dopo mesi riaperte, sembrò tutto normale tranne l’assenza della preside, uccisa per legami al regime precedente. Uccisioni e fughe moltiplicate, dilagò una nuova ideologia e segnali di pericolo. Giornali e riviste divennero illegali come i colori e la foggia degli abiti, la propaganda politica entrò in università e scuole, e gli insegnanti sostituiti da fanatici. Così chiedere all’insegnante di insegnare calcolo comportò essere invitata a lasciare la classe. Marina uscì seguita dai suoi compagni, fu l’inizio di uno sciopero di tre giorni. Poi gli arresti di giovanissimi amici, e la sera del 15 gennaio 1982 anche lei fu arrestata. Lo shock iniziale, il viaggio fino al carcere di Evin, sempre bendata, ammassata accanto a tanti, gl’interrogatori, legata e e torturata, condannata a morte, poi al carcere a vita.

“Qualche settimana fa con una delegazione sono stata ad Auschwitz e rimasi stupita quanto fosse simile ad Evin” ha sottolineato Marina. Oscurità, paurose condizioni igieniche, torture: solo i legami d’amicizia aiutano a sopravvivere. A 17 anni fu costretta a sposare il suo interrogatore, che la portò spesso dalla propria famiglia, molto accogliente. “La persona che io consideravo un mostro in realtà aveva tanto in comune con me” ha sottolineato Marina, era stato prigioniero politico sotto lo scià. Quindici mesi dopo il matrimonio fu ucciso e la sua famiglia si adoprò per la liberazione di Marina.
Marina Seregni