Brianza, boom di fallimenti:in tre anni più 40 per cento

Monza – Fallimenti chiesti e dichiarati, concordati, esecuzioni immobiliari: da qualsiasi parte la si guardi la conclusione è sempre quella. I fascicoli trattati dal Tribunale di Monza sono in aumento, stanno toccando cifre record, cartina al tornasole di una crisi che trova conferma anche nelle aule dell’ex Pretura di via Vittorio Emanuele, sede dei giudici fallimentari brianzoli.

Negli ultimi tre anni le istanze di fallimento sono passate da 352 a 501, quelle accolte sono schizzate da 166 nel 2008 a 237 nel 2010, le richieste di concordato sono più che raddoppiate, da 17 a 39 e stanno crescendo anche nei primi mesi del 2011. Ma soprattutto cresce la sfiducia dei creditori, ormai rassegnati a non raccogliere niente di quello che spettava loro. La maggior parte delle aziende che portano i libri a Palazzo di Giustizia sono già state «denudate», ridotte a scatole vuote. E quelle che dispongono di un capannone, di una sede, di qualche bene da vendere riescono a realizzare poco da ridistribuire ai creditori e con rilevante ritardo: non è così semplice, infatti, trovare compratori per immobili industriali.

«Solitamente chiudiamo duecento fallimenti all’anno di media –dice Alida Paluchowski, presidente della terza sezione civile del Tribunale brianzolo – ma il numero delle procedure continua ad aumentare e le pendenze a fione 2010 sono arrivate a quota 1271, 60 in più rispetto al 2009». La mole di lavoro alla quale devono far fronte giudici e personale giudiziario, insomma, cresce sempre di più. Un discorso che vale anche per i concordati: l’anno scorso ne sono stati aperti 39 (contro 5 del 2008) e chiusi 28. «Anche queste procedure –continua il giudice Paluchowski – fanno fatica a pagare. Di solito si tratta di concordati per liquidazione, nei quali, però non si riesce a vendere. La realtà è che la riforma entrata in vigore negli ultimi anni è molto poco efficiente in epoca di crisi, anzi, sembra amplificarne gli effetti: ormai passano concordati persino all’1,5 per cento, che non dovrebbero stare nè in cielo, ma soprattutto non in terra. I creditori sono totalmente scoraggiati, soprattutto i piccoli e i medi. Addirittura non vanno a votare anche se ci sono concordati al 35-40 per cento. Hanno perso la speranza».

Sì, perché, appunto, se anche sulla carta si decide di ripartire quanto rimasto, poi, in pratica, vendere i beni dell’azienda con l’attuale situazione di mercato diventa un’impresa titanica. Non si riescono a realizzare i soldi da dare ai creditori. I capannoni, le sedi delle società si vendono ancora male e quindi si procede molto lentamente. Il legislatore, tra l’altro, ha stabilito che il liquidatore (i concordati sono quasi sempre per liquidazione e non per continuare l’attività) debba essere principalmente lo stesso imprenditore. Il quale molto spesso non si dà gran che da fare per vendere gli immobili dell’azienda: «Per questo –continua il magistrato – ne abbiamo già sostituiti alcuni. Imponiamo che presentino una relazione ogni due mesi e se vediamo che non hanno fatto niente li sostituiamo con un liquidatore giudiziale al quale chiediamo di lavorare a metà delle tariffe per non pesare troppo sulla procedura»
Pa.Ro.