Villa Archinto Pennati: ecco la storia dell’altra Villa reale di Monza

In via Frisi si nasconde una seconda Villa reale, in piccolo: è villa Archinto Pennati, un edificio rimodellato dall’architetto Luigi Canonica, che per Napoleone aveva creato il parco di Monza. Ecco la sua storia.
Il parco di villa Archinto Pennati
Il parco di villa Archinto Pennati Fabrizio Radaelli

Quando quella villa cresce in minore a pochi passi dal capolavoro di Piermarini la famiglia dei conti Archinto sembrava inaffondabile. Sette secoli di successi di cui si ha già traccia nelle donazioni all’abbazia di Chiaravalle nel dodicesimo secolo che proseguono indisturbati fino all’alba del regno d’Italia. In mezzo, signorie, gli incarichi con gli spagnoli, le ricchezze, i titoli, con quell’unica parentesi da esiliati ai tempi dei repubblicani francesi, che ai tempi, per la nobiltà, avevano riguardi altalenanti.

C’è anche una villa neoclassica fra le tracce di quel mezzo millennio abbondante di sangue blu brillante: villa Archinto, via Frisi, l’altra reggia di Monza. A guardarla nemmeno si direbbe: le linee semplici, diritte, pulite, il portico dicono esattamente quello che è, un edificio nato nel Settecento. Ma, visto da lì, poco altro. Un pezzo di storia incastrato in una vita stretta e secondaria. Bisognerebbe vederla di là, oltre la facciata, dopo le stanze: dal fondo dell’immenso prato con un’orangerie, i tempietti, il lago sul bordo del Lambro, si vedrebbero due ali laterali scandite da tre finestre su due ordini che contengono il corpo principale, altre nove finestre che arrivano a tre ordini chiusi sotto un timpano fregiato ritmato dalle colonne. Eccola lì: a pochi passi dalla sontuosa Villa reale, l’invisibile altra reggia di Monza.

L’aveva voluta Giuseppe Archinto, il conte che con il padre aveva ereditato l’immensa fortuna di famiglia, costretti a tornare in Lombardia dopo avere riparato a Pisa all’arrivo degli ex sanculotti con la voglia di regno cisalpino. Giuseppe era nato nel 1783 e il gusto neoclassico lo aveva probabilmente respirato a pieni polmoni, da bambino, così come il senso del lusso. Forse la Villa reale l’aveva già vista. E quando adulto si trova a gestire la fortuna di sette secoli di Archinto, spende. Fa l’imprenditore, è conservatore ma attratto dalla modernità, compre e crea aziende, mette soldi nella Società strade ferrate, acquista una manifattura di velluti a Vaprio e la chiama Stabilimento nazionale Archinto. Intanto, comunque, spende. Per fare vedere la sua ricchezza, colleziona, ha un tenore di vita che amici e nemici chiamavano di “asiatica splendidezza”. Aveva tenuto bene i conti, fino a metà dell’Ottocento: lo consideravano il nobile più ricco del milanese. Certo non andava d’accordo con quel figlio Luigi infatuato dell’Italia, con idee – ahia – democratiche, ma tant’è. A Monza, vicino agli amici austriaci tornati in Villa reale, sceglie quell’edificio settecentesco e ne fa un’altra reggia. Chiama Luigi Canonica, che sì, aveva lavorato per Bonaparte, gli aveva costruito il parco, sistemato gli edifici che contiene, creato il capolavoro che ancora oggi la città possiede – ma insomma, pur non avendo più incarichi pubblici, era l’architetto più noto e stimato.

Prima del 1840 il capolavoro era finito. «La proprietà comprende un vasto parco paesaggistico di grande interesse, il cui disegno è rimasto quasi identico a quello originario: comprende due tempietti, una torre neomedievale, una roggia, un laghetto artificiale e vari altri elementi architettonici classicheggianti – racconta il portale web dei beni culturali lombardi -. Il fronte della villa verso il giardino è il più aulico perché stilisticamente unitario: il corpo padronale, di maggior altezza rispetto alle ali, presenta un blocco centrale leggermente aggettante comprendente un piano terra bugnato, aperto da tre archi a tutto sesto, e due piani superiori, tra semicolonne giganti ioniche con trabeazione, timpano di coronamento e attico laterale». Un capolavoro. Che la famiglia riesce a tenere una ventina d’anni.

Giuseppe Canonica spendeva, troppo. Quando muore all’alba dell’odiato risorgimento il figlio Luigi deve fare i conti con i creditori che si erano addirittura riuniti in consorzio per riavere quanto loro spettava. Ci mette anni per riparare al dissesto finanziario. Il padre muore nel 1861 e un anno dopo l’altra reggia di Monza passa ai padri barnabiti. La tengono per un decennio, ne fanno un collegio maschile. Vendono quello che non serve, arredi e opere d’arte. L’edificio resta svuotato del lusso con cui Giuseppe Archinto si era costruito un simulacro della reggia degli austriaci, uno sguardo più in là, i parchi confinanti, il Lambro condiviso. Sembra di vederlo, negli anni della ricchezza, guardare diritto verso le serre della Villa reale, vedere i comignoli delle ali, sapere che la sua era la seconda più grande reggia monzese.

Uno degli ultimi passaggi di mano prima della sua suddivisione in diversi appartamenti, com’è oggi, arriva nel 1873. La compra Luigi Pennati, monzese, uno che i soldi invece negli anni li aveva messi insieme, e tanti, partendo dal basso: gestendo la pulizia delle strade di Milano, per esempio. Uno che «i registri della sua complicata amministrazione li aveva tutti in testa – scriverà poi lo storico milanese Otto Cima -. E se nascevano contestazioni, tira molla, aveva sempre ragione lui, sia perché la memoria di quell’eccezionale analfabeta era prodigiosa, sia perché la sua voce potente superava quella dei suoi oppositori messi insieme».