L’idea era che non c’era più bisogno di rappresentare qualcosa, facendo arte. Che l’arte era l’oggetto in sé e non gli occorrevano giustificazioni ulteriori. Non l’aveva pensato da solo, Giuseppe Uncini: quando lui arriva il clima era già quello e le scuole d’avanguardia italiane, a Roma – Schifano e dintorni – o a Milano – dopo Fontana, Manzoni, Bonalumi e Castellani – proclamavano le stesse parole, che avevano a loro volta ereditato dalla semigenerazione precedente.
Significava sorpassare le avanguardie storiche. E aprire definitivamente le finestre. C’era anche Giuseppe Uncini là in mezzo, uno nato a Fabriano nel 1929 (è morto a marzo 2008), che s’era passato la guerra, che aveva singhiozzato negli studi, che poi era andato a caccia di fortune artistiche nella capitale. Aveva guardato Burri e poi aveva deviato. Alla, alla distanza, nessuno cerca più di metterlo da una parte o dall’altra, forse nemmeno troppo in quel Gruppo 1 di cui pure aveva fatto parte. E Uncini, e basta: l’artista del cemento.
Che aveva scelto, con altri materiali, per il semplice fatto che se lo poteva permettere, il cemento, quando era sbarcato a Roma. Il resto non troppo. E allora cemento, reti di metallo, i ferri del cemento armato, poco altro: i pezzi d’avanzo di un’Italia che tra la fine degli anni Cinquanta e i primi Sessanta, quando inventa il sistema poetico che lo avrebbe accompagnato per il mezzo secolo successivo. Lui li usa e li trasforma in Ferrocemento, Ombre, Dimore, Strutturespazio, alcuni dei nomi che definiscono di volta in volta le sue serie di opere negli anni, con la convinzione che non occorra trovare altro senso se non l’opera in sé: «Finalmente costruivo l’oggetto e, lasciando a nudo tutti i procedimenti tecnici del suo farsi, riuscivo a porre il primo punto fermo nell’iter del mio lavoro. Cioè non ottenevo più un ’quadro rappresentante’ ma un ’oggetto autosignificante’: insomma l’idea che il modo tecnico fosse il concetto e il concetto il modo tecnico», avrebbe detto in un’intervista.
E capire questo, in Uncini e in altri, significa finalmente capire l’arte di almeno l’ultimo mezzo secolo. Anche i musei civici di Monza possiedono un po’ di Uncini: come una carta degli anni Ottanta (Progetto, 1984) che propone a due dimensioni quello che lo scultore era abituato a fare abitare nello spazio. Linee rette, rigide, definite, pieni e vuoti, poco colore. Spiegato in sé: da sé.