La scoperta ha i contorni di un giallo. E la sua soluzione ha la grammatica narrativa di un thriller contemporaneo, in cui solo la scientifica è in grado di dare le risposte che inchiodano l’autore al suo delitto. Anzi, a un delitto d’autore, dal momento che il colpevole è Caravaggio e la sua colpa è avere dipinto un capolavoro di nome “San Francesco in meditazione”.
Ci sono voluti quattro secoli per scoprirlo. Poi un giorno una telefonata ha attraversato Roma da un laboratorio di restauro alle orecchie dell’allora soprintendente del polo museale, Rossella Vodret. Era l’inizio del nuovo millennio. «Venga a vedere, subito».
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C’era un motivo per tanta urgenza. Il quadro in questione, una tela di poco meno di centotrenta centimetri di altezza, era rimasta fisicamente inchiodata per quattrocento anni a una parete di sagrestia, a Carpineto Romano – Lazio, più Frosinone che capitale, oggi quattromila e un po’ di abitanti appollaiati attorno a una statale in mezzo ai Monti Lepini.
Ci sono passate anche le truppe di Napoleone, da quelle parti, ma nemmeno loro hanno dato troppo peso al quadro appeso in malo modo nella chiesa di San Pietro Apostolo.
Poi un giorno è arrivato Maurizio Marini, ma è storia recente, tre secoli e mezzo dopo la creazione: nel 1967 ha visto l’olio e gli è sembrato che raccontasse molto di più di quanto non si fosse creduto fino ad allora. Certo il tempo, la polvere, il grasso delle candele, il nerofumo avevano fatto il possibile per mascherarlo: ma c’era di più in quel san Francesco con un teschio in mano, ha pensato.
Per Maria Vittoria Brugnoli, un anno dopo, i dubbi erano svaniti: è stata lei a pubblicare l’opera come tela di Caravaggio, sapendo che avrebbe dovuto fare i conti con il concorrente, l’altro san Francesco nella chiesa dei cappuccini di Santa Maria della Concezione, a Roma. Dall’inizio del Novecento era riconosciuto come autografo caravaggesco. E aveva dalla sua quel calore e quella carica emotiva che lo facevano così tanto “Caravaggio” da non poterlo pensare altrimenti.
Due opere quasi identiche. Quasi, appunto. E la seconda godeva dell’attribuzione dei più importanti esperti di Michelangelo Merisi, come Roberto Longhi. Eppure. Il confronto tra storici dell’arte è andato avanti per qualche decennio. Si trattava di discutere di tecnica, di stile, di colore e di luce perché documenti, che ne attestassero la paternità e la produzione, che potessero tracciare l’opera e capirne i percorsi, non ce n’erano. E non ce ne sono. Quindi occorreva affidarsi alla conoscenza dell’artista, ma qui, i pareri, divergevano.
Finché non è arrivata la svolta: è quella svolta si chiama filologia e prende forma nei raggi x.
Sono state le radiografie e i restauri paralleli sui quadri, a cavallo del nuovo millennio, a risolvere il giallo: dopo la pubblicazione dei testi da parte di Rossella Vodret, constata l’ex soprintendente, «si sono tutti dovuti arrendere all’evidenza: l’autografo è quello di Carpineto».
Le radiografie eseguite sui quadri hanno evidenziato due dettagli fondamentali: uno, la presenza di pentimenti nell’esecuzione dell’opera di Carpineto, assenti in quelli dell’Immacolata; due, la tecnica delle ombre, che solo nella tela scoperta nel 1967 sono riconducibili allo stile pressoché unico di Merisi.
I pentimenti: non si tratta di errori rimediati. Le radiografie dimostrano come nella tela di Carpineto sono state fatte delle correzioni, di prospettiva o di soggetto. La mano che tiene il teschio è stata modificata. La proporzione del santo ingrandita, «ma chi copia non ha motivo di modificare l’impostazione», osserva Vodret.
Insomma: l’artista ha cambiato idea, è intervenuto per rivedere la composizione, succede solo se è l’opera originale. Poi le ombre. Che “sono” Caravaggio. Non si tratta soltanto di una scelta tematica, è formale: «Merisi non fa come gli altri, che dipingevano in chiaro per poi aggiungere le ombre. Lui costruisce dallo scuro e poi aggiunge i chiari alla tela – sottolinea l’ex soprintendente – Un modo inusuale utilizzato sempre da Caravaggio a partire dalla maturità». E così nel Carpineto. E solo in quello, tra i due.
Ma c’è di più. E allora bisogna tornare a quella telefonata che attraversa Roma e arriva a Rossella Vodret nel Duemila. «Venga a vedere, subito». Perché prima della pulizia e delle analisi certezze non ce n’erano e allora valeva tutto: l’intuizione, la consuetudine. Si poteva scrivere qualsiasi (ponderata) cosa. Ma dopo l’evidenza scientifica, racconta Vodret, e dopo la pulizia, si è letteralmente alzato un velo. Allora sono apparsi ovvi come solo un maestro come Caravaggio potesse essere l’autore di quei dettagli della corda sul saio, di quel fondale magistrale, del volto.
«C’erano due quadri considerati uguali. Uno era meno duro, quello di Roma. Era visto come più bello, con più grazia. Più calore. Elementi che l’hanno fatto scambiare per un’opera di qualità maggiore. Ma quando i restauratori li hanno puliti abbiamo visto la verità: il divario qualitativo era enorme a favore di quello di Carpineto. Che non poteva che essere l’originale. Un insegnamento importante: bisogna saper vedere al di là della piacevolezza immediata».
Si sa tutto, oggi, del “San Francesco in meditazione” scoperto a Carpineto. Almeno per la tela in sé. Meno della provenienza e del suo anno di nascita, abitualmente considerato il 1606.
La chiesa in cui è stato trovato è stata fatta realizzare da Pietro Aldobrandini, cardinale, nipote di papa Clemente VIII. Ed è un edificio completato un paio di anni dopo la morte di Caravaggio (1610). Ma è in quella zona che Merisi si rifugia quando è costretto a scappare da Roma con una sentenza di morte sulla testa per l’omicidio Tomassoni: Caravaggio trova riparo nei feudi dei Colonna, confinanti con quelli degli Aldobrandini.
E in assenza di documenti che provino la commissione, è possibile credere che sia stato il cardinale a chiedere al pittore in fuga di realizzare il quadro. Era il 1606. E il pittore “eccelso”, come lui si era definitivo, come noi oggi lo conosciamo, fuggiva dai suoi sicari.