Avrebbe voluto suicidarsi Claudio Giardiello, il killer del tribunale di Milano. Ci ha pensato per tre volte quel 9 aprile, il giorno della strage. L’avrebbe voluto fare a casa, poi proprio al Palazzaccio: «Un gesto clamoroso per far vedere a tutti le ingiustizie che a suo dire aveva subito». Si era portato dietro apposta la pistola che invece poi ha utilizzato per uccidere tre persone prima di darsi alla fuga disperata in Brianza, verso un prato, all’ombra delle Torri Bianche di Vimercate. Lì si sarebbe suicidato davvero: un’ultima sigaretta, poi il grilletto premuto contro di sé. «Ma i carabinieri sono arrivati prima. E lui li ha ringraziati».
Parla per la prima volta
Sono particolari inediti quelli raccontati da Andrea Dondè, il nuovo legale dell’imprenditore 57enne, detenuto in carcere a Monza, che martedì, per la prima volta, in 5 ore ha raccontato la sua verità ai magistrati, quelli del tribunale di Brescia, il procuratore capo Tommaso Buonanno e il sostituito Isabella Samek Ludovic.
«È stato un interrogatorio molto difficile, il mio cliente si è dovuto interrompere più volte – racconta l’avvocato – ma i pm, pur nell’incisività e fermezza, hanno mostrato di aver compreso le sue precarie condizioni di salute». Dondè, legale milanese di 49 anni, ha assunto la difesa dell’imprenditore da una settimana: «L’assisterò per il processo di Brescia – dice – mentre un altro collega, l’avvocato Antonio Cristallo, per la bancarotta della immobiliare Magenta srl». Come l’ha trovato? “Mah, io non ho conosciuto l’uomo brillante descritto dalla stampa. Piuttosto ho visto una persona distrutta che ha evidenziato notevoli difficoltà a esprimersi anche a causa delle profonda tensione nervosa. Ciò nonostante, l’ho convinto a parlare e lui ha risposto a tutte le domande dei magistrati e ha fornito una versione di quanto accaduto quel 9 aprile per certi versi inedita ma credibile».
La STORIA
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«Non voleva uccidere»
Cosa ha raccontato? Come è andata quella maledetta mattina? «Ai magistrati ha detto che è entrato in tribunale con la pistola, ma non aveva intenzione di uccidere nessuno. Piuttosto quell’arma, che deteneva regolarmente, la voleva utilizzare su sé stesso, voleva uccidersi in tribunale, un gesto eclatante per farla pagare a quanti, secondo lui, l’avevano rovinato». Su come sia riuscito a introdurre la Beretta nel Palazzo di giustizia l’avvocato è volutamente impreciso: «Posso solo dire che è entrato da un accesso riservato a avvocati e pubblico, sulla presenza o meno di un metal detector non mi esprimo perché non voglio coinvolgere altre persone».
L’avvocato e il presunto complotto
Dondè dice che Giardiello al processo di quella mattina: «stava lavorando da una settimana studiando tutte le carte con il suo avvocato (Lorenzo Alberto Claris Appiani ndr)». Un comportamento anomalo, a suo dire, per una persona che mediti di fare una strage: «È come se uno studente volesse uccidere il suo professore durante un esame: che fa, studia? Non credo proprio». Piuttosto quell’arma l’aveva portata per sé: «nel caso il processo fosse andato male». «In aula, tuttavia, secondo Giardiello inspiegabilmente, l’avvocato ha cominciato a rivolgergli domande non concordate. Questo gli ha fatto credere per l’ennesima volta di essere vittima di un complotto, ha estratto l’arma e ha cominciato a sparare». Ma voleva fare quella strage? «A quel punto era ormai scattato qualcosa».
«Si voleva ammazzare a casa»
Quindi, secondo il racconto fatto ai magistrati bresciani, la vera vittima di Giardiello sarebbe dovuto essere lui stesso: «Ha detto che aveva già intenzione di farla finita quel mattino, in casa, prima di andare in tribunale. Ma non ha avuto il coraggio di dare un colpo così alla sua compagna, di farsi trovare morto al suo ritorno».
Ha deciso quindi di prendere il suo scooter e di andare a Milano ad affrontare il processo e, nel caso, farla finita lì, davanti a tutti. Poi invece è andata in modo molto diverso. «Uscito dal tribunale ha ripreso la Suzuki e ha raggiunto la Brianza, ma non aveva intenzione di andare nella bergamasca a uccidere un ex socio, come emerso inizialmente».
L’ultima sigaretta
All’ombra delle Torri Bianche, posteggiata regolarmente la moto, ormai intercettata dai carabinieri, Giardiello si sarebbe acceso l’ultima sigaretta, come un condannato a morte: «Ha detto di volersi fumare quell’ultima sigaretta su un prato e lì farla finita – dice Dondè – Poi sono arrivati i carabinieri e a quel punto ha detto loro quella frase: “Meno male che siete arrivati” a scongiurare il suo gesto estremo».
Perizia psicologica
L’avvocato esclude che Giardiello possa essere trasferito dal carcere monzese a quello di Brescia: «Non credo proprio. Non lo sono ancora andato a trovare in cella a Monza, ma credo che dopo il suo crollo psicologico sia sempre stato sotto cura. È probabile che anche martedì durante l’interrogatorio fosse sotto l’effetto di sedativi. So che in passato era stato seguito da psicologi e psichiatri. Ora voglio sapere dai medici che l’hanno avuto in cura se gli abbiano prescritto farmaci e da quanto tempo».
«Il mio cliente stava vivendo un profondo disagio con crisi di panico, una conseguenza del fatto che si sia ritrovato improvvisamente a vivere in condizioni di estrema indigenza a causa di persone che a suo dire gli hanno teso un complotto tra il 2006 e il 2007».
Quelle alle quali ha sparato in tribunale? «No, è più arrabbiato con altre, degli ex soci».
Quale sarà la strategia difensiva? Il rito abbreviato?
«A questo punto tre ergastoli o 30 anni di carcere per una persona che ha quasi sessant’anni cambia poco – dice l’avvocato – L’obiettivo è ottenere una perizia psichiatrica,anche solo per parziale incapacità».
Ha già potuto parlare con i familiari? «Non ancora, ho reperito un contatto della ex moglie che ho intenzione di sentire nei prossimi giorni».