Le scale ripide si aprono dietro un portone incastonato in fondo al cortile del decanato, tra l’ingresso dell’oratorio del Redentore e gli uffici parrocchiali. Due rampe scrutate dagli occhi ieratici degli ecclesiastici ritratti nelle grandi tele che adornano il passaggio. Una quarantina di scalini prima della seconda porta, altrettanto spessa e pesante, per accedere alla stanza dove ci si spoglia della quotidianità per vestire i panni della storia. Vestirli letteralmente. È qui, infatti, in una piccola stanza accanto alla basilica, che i membri del corpo degli alabardieri si preparano, indossando la divisa, con spada e alabarda.
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Qui giovedì sera si sono vestiti anche i quattro nuovi alabardieri, tutti monzesi tra i 26 e i 36 anni, che indossano la divisa ufficiale del corpo armato del duomo di Monza per la prima volta, prima della cerimonia ufficiale di investitura in duomo, presieduta dall’arciprete, monsignor Silvano Provasi.
«È l’amore e l’affetto che proviamo per il duomo e per Monza il motivo che spinge tutti noi a indossare la divisa», spiega Giorgio Villa, dal 2013 comandante del corpo.
È lui che apre la stanza per mostrare gli armadi dove sono conservate armi e divise. Sul tavolo appoggia la pesante giacca di lana, i pantaloni al ginocchio, la cintura con lo stemma della Corona ferrea e il cappello piumato. Pezzi di stoffa che raccontano la Storia di una città, Monza, e di un popolo, i longobardi. Risale infatti all’epoca di Teodolinda la nascita delle guardie armate, ma non esiste alcun documento ufficiale che ne attesti l’esordio. Come a dire, ci sono sempre stati. Nei documenti successivi, risalenti al Settecento e all’Ottocento, conservati nella Biblioteca capitolare del duomo, si parla già degli alabardieri come di una presenza fissa durante le cerimonie solenni o le processioni.
«Nei primi anni del Settecento venne sospesa la processione del Santo chiodo, una delle più sentite di Monza, durante la quale si porta in corteo la Corona ferrea che conserva la reliquia del chiodo della croce di Cristo, proprio perché non fu ritenuta una reliquia ufficiale. Fu il papa poi a ripristinare il culto e nel 1718 la processione riprese, così come è descritto in un documento ufficiale nel quale si parla dell’ordine di processione, del baldacchino e anche degli alabardieri», spiega Villa.
Nati per custodire la regina Teodolinda prima e il tesoro del duomo poi, gli alabardieri sono una delle icone cittadine più caratteristiche, ma guai a chiamarli “figuranti”.
«Non siamo maschere da corteo storico, il nostro ruolo è qualcosa di fortemente simbolico ancora oggi», precisa il comandante. La divisa, così come è conosciuta ancora oggi, risale al 1736, anno in cui l’imperatrice Maria Teresa d’Austria approvò la richiesta avanzata dai Fabbricieri del duomo, con un’unica modifica: niente bordatura rossa, meglio un filo dorato.
Le divise indossate dagli alabardieri oggi sono copie di quelle antiche, rifatte nel 2008, ma perfettamente identiche al bozzetto originario. Le alabarde, invece, risalgono alla fine dell’Ottocento, quando vennero rifatte così come le spade. I cappelli, invece, sono cambiati negli anni e a firmare il cambiamento è stato Simeone Bernasconi, indimenticato comandante, scomparso nel 2013.
«Inizialmente il copricapo doveva essere un tricorno, poi in epoca napoleonica venne proposta la feluca – spiega Villa –. Bernasconi aggiunse poi le piume: bianca per il comandante o il capo del drappello e rossa per tutti gli altri».
Una tradizione, quella degli alabardieri, che ha attraversato anni di crisi, fino a sparire del tutto dal 1977 fino al 1982. «È grazie all’impegno di Giovanni Bernia e dell’arciprete di allora, monsignor Dino Gariboldi, che il corpo riprese vita proprio nel 1982 con l’ingresso di alcuni giovani, tra cui c’ero anch’io, che sono nel corpo alabardieri da allora», racconta Giorgio Villa.
«Sono felice che oggi altri giovani chiedano di far parte del corpo, segno che la tradizione degli alabardieri è destinata a durare».