Bruxelles, Parigi. Due capitali finite tragicamente sulla mappa internazionale del terrorismo, le città tra cui si divide Manuele Brambilla, ingegnere informatico di Vedano al Lambro trasferito da otto anni in Belgio. Lui, 32 anni e rimasto a lavorare all’estero dopo l’Erasmus e un dottorato in robotica all’università, vive e lavora a pochi chilometri dai luoghi in cui martedì tre esplosioni rivendicate dall’Isis hanno provocato oltre 30 morti e 200 feriti.
Era anche nella zona del Bataclan a novembre, nell’altro grande attentato degli ultimi mesi: 130 vittime tra il pubblico di un concerto.
Entrambe le volte ha avuto la fortuna di non essere toccato dalla violenza, né personalmente né tra gli amici. La fortuna di poter apprendere le notizie dalla televisione, come tutti. Nonostante fosse lì a due passi.
«Abito a Ixelles, a circa 5 km dalla fermata metropolitana di Maelbeek e poco di più dall’aeroporto – racconta – Sono andato al lavoro come al solito in bicicletta. Non passo dalle zone attaccate per andare in ufficio, quindi non mi sono reso conto di nulla. Ho appreso degli attentati dai siti di news e da alcuni messaggi di amici e colleghi». Che stanno tutti bene.
Come era stato in novembre a Parigi, quando era andato a trovare la fidanzata che sta a poche centinaia di metri dalla sala concerti attaccata da terroristi armati che vivevano a Bruxelles, nel quartiere di Molenbeek, e che hanno stretto a doppio filo il destino delle città. Tra operazioni anti-terrorismo seguite in diretta in tutta Europa e l’arresto, a inizio settimana, di quel Salah considerato la mente di tutto.
«A Bruxelles l’unico cambiamento visibile è stata la massiccia presenza di polizia e militari un po’ ovunque – continua Brambilla – nei punti di passaggio, in metropolitana e nelle stazioni, vicino alle istituzioni europee, nelle piazze e davanti ad alcuni grattacieli di uffici. Poi è diventata sui giornali da un giorno all’altro un luogo “pericoloso” e la “culla del terrorismo in Europa”. In realtà la vita quotidiana è andata avanti come prima e anche la famigerata Molenbeek è in realtà un quartiere normale, con zone più o meno sicure. Ma come ovunque. I miei amici di qui la pensano come me: nessuno di noi ha cambiato abitudini di vita dopo novembre. Solo alcuni politici più estremisti hanno alimentato la paura per aumentare la distanza tra il nord fiammingo e il sud francofono del paese».
Mai pensato di tornare indietro, magari per paura? «Onestamente mai: non credo che il Belgio sia un paese più pericoloso di altri e che Bruxelles lo sia più di Milano o Roma. Ne sono sempre convinto, anche dopo questi attentati».