Mamma Eva non sapeva più dove fosse finito quel suo figliolo, improvvisamente sparito nei giorni tumultuosi e drammatici della Liberazione.
Ma lui, alla fine, tornò finalmente a casa a Muggiò con un fucile in mano, prova tangibile del suo coinvolgimento nella Resistenza. Eugenio Cambiaghi, classe 1929, morto nel 2008, operaio specializzato alla Breda di Sesto San Giovanni, raccontava così la sua partecipazione al 25 aprile di 70 anni fa, il suo disperato impegno per la difesa della “sua” fabbrica. Era lui quel ragazzo atteso a casa da una mamma angosciata. Un episodio raccontato più volte alla figlia Patrizia.
«Ma mia nonna – precisa Patrizia Cambiaghi – era rimasta talmente sconvolta dalla mancanza di notizie che prese il fucile portato a casa da mio padre e ne segò il calcio, per renderlo inutilizzabile. Di armi, a casa sua, non ne voleva vedere più».
Eugenio Cambiaghi era poco più d’un ragazzo, il 25 aprile 1945. Ma era il rappresentante di una generazione temprata dalle difficoltà. Nel gennaio 1943, quando viene assunto alla Breda, ha due fratelli maggiori al fronte. Alla Breda segue un corso e lavora. Nell’ottobre 1944 è tra i soccorritori che intervengono dopo il bombardamento di Gorla.
Il vero obiettivo dei bombardieri americani è proprio lo stabilimento della Breda. Le bombe, però, vengono sganciate per errore su Milano e centrano anche la scuola elementare Francesco Crispi. Solo qui moriranno 184 alunni.
«Mio padre – ricorda Patrizia – andò a dare una mano per estrarre i cadaveri di quei bambini. Eppure, malgrado tutte le privazioni e i rischi di quegli anni, non aveva recriminazioni: aveva provato la mancanza di democrazia. Conosceva il valore della libertà ed era disposto a ogni sacrificio pur di riconquistarla».
Felice Camesasca, classe 1928, il moschetto modello 38 che imbracciò durante i giorni della Liberazione, lo consegnò invece in buono stato il 23 maggio 1945. Lo testimonia una ricevuta che Camesasca conserva insieme alla tessera da partigiano. Camesasca, il suo 25 aprile 1945, se lo ricorda bene, con quei due «panzer tedeschi che stazionavano all’incrocio tra via Passerini e via Manzoni». A Camesasca, monzese gran conoscitore dei sentieri del Resegone, ogni tanto prima della Liberazione davano dei messaggi da portare in montagna.
«Allora – spiega ancora il monzese ripensando a quei giorni di settant’anni fa- era un ingenuo. Solo dopo capii che erano istruzioni per i partigiani. In quegli anni frequentavo l’oratorio del Carrobiolo e si dava una mano alla Resistenza, cercando di far scappare gli ebrei in Svizzera. In certe escursioni, si partiva in venti e si tornava soltanto in cinque».